
pp. 254 – Abscondita – Milano 2008
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Tutti i manifesti del futurismo opportunamente assistiti da un’analisi di Viviana Birilli che cerca di collocare queste esplosioni di virulenza verbale all’interno di un contesto storico e sociale di grandi rivolgimenti.
Leggendoli adesso, alla luce di tanti avvenimenti e di tante delusioni, non si riesce a capire fino in fondo quello che questi testi rappresentarono di vivo e di giovane, con tutti i limiti che questa nuova ideologia della velocità e della forza portava con sé. In fondo la grande carica eversiva e perfino rivoluzionaria, lo spregio per quello che all’epoca (ma anche ora) erano considerati valori borghesi, furono livellati e passati sotto il rullo compressore della Grande guerra, a cui, nel loro piccolo dettero un contributo anche questi pittori e questi poeti, questi drammaturghi, questi musicisti e questi scultori che si riunirono attorno alla figura di Martinetti e alla rivista “Poesia”.
L’illusione della forza e della velocità, il culto della macchina, il sogno ingenuo di usare la tecnica per scalzare le fondamenta sonnacchiose di un’Italia ancora provinciale, dovevano cadere nelle braccia del fascismo che un decennio dopo bussava alle porte con le sue capacità realiste di dare risposte politiche e organizzative in nome dell’ordine e dello Stato. Non erano certo questi sognatori, insieme alle loro illusioni mal coltivate e mal poste, a costituire un elemento di contrapposizione di fronte agli squadristi di Mussolini, caso mai essi proponevano un potere alternativa, fatuamente incentrato sul dominio della cultura e della poesia, mentre dall’altro lato dilagava l’olio di ricino e il manganello.
Questa lettura rimane comunque di grandissima importanza perché fa vedere dove sono i limiti di qualsiasi atteggiamento che fa dell’estetica il suo unico punto di forza e dove si trovano invece gli elementi positivi che se opportunamente collocati in una diversa prospettiva, cioè meglio inserita nella lotta sociale, avrebbero potuto dare risultati migliori.
Cogliendo in pieno questa cesura si possono anche studiare con utile soddisfazione i tentativi dei paroliberi, le sperimentali realizzazioni architettoniche, le riflessioni sulla funzione della musica, la lunga lotta dei pittori contro la statica del realismo e il rapporto coraggioso ma insufficiente degli scultori con lo spazio.
La normalità. Era da questa chiusura sigillata una volta per tutte che i futuristi volevano fuggire. Quanti impassibili assassini salgono sul treno ogni mattina per andare in ufficio. La loro violenza è norma e normalità, racchiude il senno del mondo, il senso del tempo. Negli sguardi ciechi che a stento trapassano l’aspetto di chi sta vicino non c’è altro che la paura del cane bastonato, il ricordo della catena e della frusta, il bisogno dello steccato protettivo. Date loro un mandato munito di bollo e vi massacreranno il mondo. Ed è quello che fecero nella Grande guerra, nel più immane dei massacri di cui era pur costellata la storia del mondo. Gli orrori dell’equilibrio sono coperti dal pudore, difesi dal ritegno. Spezzare tutto questo significa opporsi, compromettersi nella spudoratezza di una scelta che di per sé non è ancora bastevole, occorre anche dirla questa scelta. Ed è quello che fecero i futuristi. Ma chi parla è giocato dalla sua stessa parola, produce ed è prodotto. Per aprire occorre condurre il ritmo su sentieri imprevedibili, dove la parola diventa nemica, trappola indiretta, mezzo costretto dal gioco delle parti a sostenere una parte che le parti non hanno pattuito. Dire dell’altro. Ma come è possibile se l’unico oggetto del dire è solo l’immediato archiviarsi della vita? Questo è stato il destino tragico (e fallimentare) di questi artisti.