
pp. 102 – Guanda – Parma 1994
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“Ognuno l’ha avuta, / nessuno l’ha apprezzata, / ognuno la dolce fonte ha confortato, / oh come risuona ora il nome pace! / Risuona così remoto e incerto, / risuona così carico di lacrime, / nessuno sa e conosce il giorno, / ognuno lo attende con ardore. / Sii benvenuta, prima notte di pace, / debole stella, quando infine appari / sopra i vapori roventi dell’ultima battaglia. / A te volge lo sguardo / ogni notte il mio sogno, / impaziente viva speranza coglie / intuendo già il frutto dorato dell’albero. / Sii benvenuta, / quando sorgendo dal sangue e dal travaglio / nel cielo terrestre ci appari, / aurora di un altro futuro”.
Così scriveva Hermann Hesse nell’ottobre del 1914, esprimendo non solo una grande speranza, ma principalmente dolore e indignazione per la distruzione in corso.
Il conflitto, iniziato da poco, dopo l’uccisione a Sarajevo di Francesco Ferdinando, erede al trono dell’Impero austriaco, si era subito rivelato un vero e proprio macello organizzato per consentire alle oligarchie imperiali di mantenere un ormai improbabile controllo delle masse sfruttate.
Giudicando il conflitto in corso un assurdo massacro, dal 1914 egli dedicò parte della sua opera a scritti antibellicisti dichiarandosi, dalle pagine del “Neue Zürcher Zeitung”, fermo pacifista. Ciò gli valse l’accusa di “traditore della patria”.
Questi scritti contro la guerra sono stati tutti pubblicati con lo pseudonimo di Emil Sinclair, ed è proprio con questo nome che nel 1919, a Berlino, Hesse pubblica uno dei suoi romanzi più celebri: Demian. Storia di una gioventù.
Assistendo i prigionieri di guerra le sue convinzioni pacifiste e antibelliciste si andavano sempre più rafforzando. Tramite il dolore dei feriti, egli constatò direttamente la guerra e la sua bestialità che fa sviluppare il lato peggiore di ogni singolo uomo portandolo a desiderare di uccidere il proprio simile, diventato nemico, per potere sopravvivere.
Sono parole di dolore ma anche di fermezza, parole che cercano di provocare, se non altro in qualcuno, il disgusto, il rimorso o quantomeno il dubbio. In fondo è dei vizi della nostra civiltà che queste pagine parlano, vizi che si riassumono nell’ingordigia dell’accumulo e nella durezza di orecchio di fronte alle implorazioni di chi soffre. Ma la storia fornirà, nel breve volgere di due decenni, altre lezioni, sempre più dure.
“Dai deserti ardenti / avanza fluttuando un vento venefico, / cupo attende il mare appena mosso, / centinaia di gabbiani inquieti sono / per il bollente inferno nostri compagni. / Fulmini squarciano impotenti dell’orizzonte il limite, / della pioggia non conosce il beneficio questa terra maledetta. / Lassù però netta e serena si trova / sola una quieta nuvola, l’ha posta per noi Dio. / Perché più a lungo non fossimo afflitti / e soli in questo mondo. / Mai dimenticherò quel nulla sconfinato / e questo inferno opprimente / che trovai nel luogo più caldo della terra, / ma che lassù la nuvoletta sorridente stesse, / mi sarà di conforto per l’opprimente calura, / che sento avvicinarsi nel meriggio della mia vita”.