
pp. 112 – Massari – Bolsena 2002
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Sul problema della malattia mentale lo spartiacque storico-filosofico kantiano si apre alle teorie di Rousseau e dà importante contributo al clima culturale dell’epoca in cui stavano maturando i nuovi orientamenti della psichiatria.
Ma Kant si dimostra molto equilibrato, come era nel suo modo di essere, non accetta cioè di risolvere tutto rinviando alla bontà essenziale e primigenia della natura, si rende conto che occorre anche una valutazione positiva dell’operare umano, perfino ortopedica se così possiamo dire. Riguardo la “triste malattia” come egli chiama la follia, alla fine conclude di una collaborazione tra medico e filosofo. Da escludere, specificatamente, l’intervento dell’autorità costituita, con provvedimenti coercitivi per staccare dal contesto sociale questi malati, e anche un intervento del medico diretto a snaturare completamente l’animo del malato.
Il filosofo, insieme al malato, deve tendere a cercare la verità, utilizzando gli stessi mezzi che il primo usa nella sua quotidiana, laboriosa vita di studioso.
Kant scrive: “Uno squilibrio dell’intelletto consiste nel fatto che da esperienze per se stesse esatte si giudica in modo completamente stravolto: e il primo grado di questa malattia è la demenza, che nei giudizi tratti dall’esperienza opera in contrasto con la comune regola dell’intelletto”. Certo, è la sua conclusione, il filosofo non potrà guarire il triste malato, ma potrà aiutarlo in una sorta di “dieta dell’animo”.
Non bisogna sorridere di questi spunti tanto, apparentemente, lontani dalla moderna psichiatria e psicologia. Molti aspetti di queste due scienze, una volta approfonditi, risultano essere parimenti fondati su certezze elaborate da altre scienze e tutt’altro che dimostrazioni di verità incontrovertibili.