
pp. 388 – Edizioni Anarchismo – Trieste 2004
Prezzo di copertina € 15,00
Nostro prezzo € 10,50
Mi capita spesso di leggere qualche pagina de L’Unico, anche quando sono intento ad approfondire argomenti di altro genere. Ed è sempre un breve itinerario su un territorio sconosciuto.
Stirner è una lama affilata che penetra in profondità, che non ammette soste, che non si ferma a metà strada, arriva fino in fondo, subito. E lo fa soltanto col pensiero. I fatti, se ci sono, a volte, sono lì per stornare l’attenzione, per ricondurre i piedi a terra e quindi suscitano perfino un sorriso di compiacenza. Il pensiero no. Si muove in maniera lineare, taglia via i ponti con la realtà e con il perbenismo delle comparse intellettuali che si inchinano a vicenda prima di dirsene quattro, annacquate annacquate, che fanno poi tutti i salamelecchi di scusa se, per caso, gli è occorso di toccare qualche nervetto. Il pensiero nudo e crudo di Stirner è un atto barbarico di rara ferocia, eccessivo, il classico elefante che con la sua pachidermica mole si fa spazio nel negozio dei ninnoli filosofici.
Un maestro c’è, ed è evidente, ma è uno strano maestro, quell’Hegel che affilava lame anche lui, per poi fermarsi a metà strada, spuntandone con cura la parte più pericolosa e costruendo proprio in quel punto i nuovi pilastri del potere. Stirner oltrepassa questo punto (Marx aveva invece fatto semplicemente un ulteriore passo indietro nei riguardi del suo maestro – in questo consiste la faccenda della testa e dei piedi della dialettica), l’oltrepassa senza quasi che il lettore se ne accorga. Dopo Stirner non è possibile nessun uso del pensiero se non al di qua della linea di barbarica rarefazione della civiltà e delle sue condizioni di accomodamento che lui tracciò, in maniera attenta, spesso quasi senza farsene accorgere.
Il passo successivo è soltanto l’azione, il regno delle chiacchiere è diventato indicibile. “Io voglio soltanto essere io. Io disprezzo la natura, gli uomini e le loro leggi, la società umana e il suo amore, e recido ogni rapporto generale con essa. E già faccio una concessione se mi servo del linguaggio, io sono l’ indicibile, io mi mostro soltanto”.
Il pensiero che mette fine alla chiacchiera è fatto passare per qualcosa di primitivo, di non sufficientemente acculturato, qualcosa che non conosce garbo e maniere. Ecco perché lo considero barbaro, perché in termini dell’ortodossia linguistica dell’accademia si limita a volte a balbettare nell’impossibilità di continuare a dire la grande pressione emotiva che sta dietro, che sta dentro e che non riesce a venire fuori. Ma perché dovrebbe venire fuori in un ulteriore distinguo del meccanismo hegeliano del pensiero, anche questo, ultimo elemento di comune comprensione, che finisce per essere buttato a mare? Persino i neokantiani provarono a chiedersi chi mai fosse costui, e che volesse dal loro cicaleccio coordinato, visto che di metodo, dopo tutto, se ne curava poco.