Blaise Pascalpp. 1085 - Einaudi - Torino 2004
- ESAURITO -
Edizione completa e splendida nella Biblioteca della Pléiade di questa raccolta di pensieri, libro senza precedenti e senza eredi, di un genio assoluto. Vi sono anche inclusi i pensieri ritrovati e questi lasciati da parte in vaste di frammenti.
L’impressione che si ha leggendo queste pagine, solo alcune di esse, solo alcuni di questi folgoranti pensieri, e di essere folgorati da una acuta penetrazione intellettiva. Nessuno, nemmeno Agostino, troppo sanguigno per giungere a tanto, è arrivato così in fondo.
Pascal si affida a Dio, soluzione che per lui è stata radicale fino alla catastrofe. L’orizzonte giansenista non ammetteva alternative. La rigidità assoluta era il suo credo. Ma non è questo il punto. La contraddizione che lo ha tormentato per tutta la vita era basata sulla domanda, come può la perfezione essere intaccata dalla nullità estrema, Dio dispiacersi dell’operato dell’uomo? Il temperamento del filosofo, di questo grande filosofo, si spuntava di fronte alla estrema insensibilità del tutto, la quale non può che essere tale, estranea al mondo e a questo completamente inaccessibile. Eppure qualcosa batteva nel suo povero cuore annichilito, come batte nel cuore di chi si inoltra nel deserto, qualcosa di meravigliosamente intimo, quindi fisico, fondato sulla pena e il dolore, sull’attesa della ricompensa, della salvezza dall’inquietudine e dalla paura, qualcosa che è completezza che completa.
Pascal, da grande matematico, sa bene che la mente umana non può concepire l’universo se non ricorrendo a degli espedienti puerili, troppo modesti di fronte alla immensità del compito. Ma sa anche che questo sforzo, nella modestia dei suoi risultati, è davvero notevole. Ciò, come è ovvio, non prova nulla né la distanza dell’uomo da Dio, né l’esistenza della strada inversa.
A volte è l’apparente diversione che il testo stesso suggerisce, come se l’autore si fosse stancato di fornirmi indicazioni e aspettasse, in un vuoto della frase stessa, che sia io a dire la mia proposta insolubile, inesauribile, non indebolita dall’attesa, anzi rafforzata dalla difficoltà. Ciò è molto difficile. Il risultato è l’incoerenza, mia naturalmente.
Che cosa sono i nostri princìpi naturali se non i nostri princìpi abituali, dice Pascal? Può darsi che egli colga nel segno, l’abitudine regna nell’immediato. Le moi est toujours haïssable, affermazione radicale del povero Blaise. Lo sguardo insondabile che provoca la follia dell’assoluto non si trova, da questa parte, che raramente, ed è visto in ogni caso come insofferenza e rinuncia alla ricerca assoluta. Voglia dell’assenza recitano gli sciocchi saccenti, ma non può essere accettata questa formula perché la volontà si indirizza sempre verso la presenza, ogni cosa che dalla presenza si allontana la mette in apprensione. Il dolore, sia pure in minima parte, nel fare quotidiano, cerca molti modi per attutire la disperazione originaria, l’assenza della completezza. Pascal sa bene che vuole dire questa scissione, anche se il soffocante sentimento religioso giansenista gli impedisce di dare fino in fondo il dono di tutto se stesso, di abbandonarsi. Egli ha cercato di definire in mille modi l’inquietudine, ma dietro di essa la potente leva del dolore agisce in maniera tanto variabile e indeterminata da vanificare ogni sforzo specificativo. Lasciare alle proprie spalle il lento ripetersi della logica dell’accumulo, dell’ottusità del possesso, abbandonare il regno della coerente e conosciuta utilità, significa contrarre la propria vita, folgorarla in un punto specifico della propria esistenza, concentrarla, chiamarla all’attimo inatteso eppure cercato da tanto tempo, al grido sul rogo in fiamme, all’indirizzo verso la soglia dove una chiave inimitabile aprirà la porta che accede all’assolutamente altro.
Pascal è tutto questo e altro ancora.