Antonio Porchiapp. 78 – Il melangolo – Genova 1994
- ESAURITO -
La realtà non si può cogliere direttamente nella immediatezza, ma non perché sia nascosta, ma proprio perché risulta coperta dalla eccessiva evidenza, cui l’ha sottoposta il travestimento rassicurante delle parole, in altri termini le “voci”. La grande presenza del senso finisce per rendere tutto privo di senso.
Questo il contenuto ultimo del lavoro di Porchia, definito da André Breton, nei suoi Entretiens 1918-1952, il pensatore più duttile di espressione spagnola.
Tutte le Voci sono autonome e contemporanee, quando parla l’io dell’autore non viene in campo nessuno, è semplicemente la categoria del soggetto che entra in gioco, dice la sua e scompare nel nulla che insiste a dominare la scena. “Tutto il creato è soltanto ciò che tu puoi creare con tutto il creato”, dice Porchia, e lascia sbalorditi, oltre non c’è nulla. “Tutto è un poco di oscurità, perfino la stessa luce”.
Quando ci immaginiamo di scendere fino in fondo, nell’oscurità più buia che costituisce lo zoccolo di quello che ognuno di noi è veramente, ci accorgiamo che l’intero itinerario è una costruzione fittizia, un gioco tra noi e noi stessi, eventualità e accidenti piovuti dall’esterno sulla nostra presunzione assoluta, non risposte vere e proprie. Ma non possiamo trarre da noi quello che non c’è, una semplice stimolazione dell’immaginario non basta. La roccia di Horeb si sbriciola continuamente e non c’è modo di scalarla.