
A cura di Giuseppe Galasso
pp. 724 – Adelphi – Milano 2005
- ESAURITO -
È il lavoro fondamentale di Croce, anche se non il meglio riuscito.
Come quasi tutte le sue ricerche si divide in due parti: una teorica e una pratica. Il materiale di fondo era da lui già stato pubblicato qualche decennio prima dell’inizio del secolo scorso, come memorie e come articoli per riviste napoletane, ma qui trova ben altra dimensione e significato.
Mi piace sostituire alla recensione che potrei svolgere io quella scritta a suo tempo da Giovanni Gentile. Eccola: «Siamo innanzi a una delle opere filosofiche tra le più importanti che si siano pubblicate in Italia dal Sessanta in qua; e che meriterebbe ben più ampio discorso che non le si possa dedicare in un giornale letterario. Ma l’autore promette di tornare quanto prima sul suo lavoro, ampliarlo nei particolari e compierlo con una storia dell’estetica. Allora se ne potrà parlare più largamente. Intanto gioverà anche un breve riassunto che possa invogliare chi legge a cercare il bel lavoro. Il quale fa già tanto onore agli studi italiani ed è a sperare che possa far loro altrettanto bene. Ogni espressione presuppone un’impressione. Ma l’espressione in senso estetico è cosa affatto diversa dalla espressione in senso naturalistico, semplice riflesso fisico dell’impressione. Questa è una conseguenza necessaria dell’impressione, quella no; questa non presuppone l’impressione, e quella sì. L’autore adopera il termine «espressione» nel solo significato estetico, convenendo di chiamare sintomi o fenomeni quei fatti naturali, cui volgarmente si attribuisce anche quel termine. L’impressione è il fatto psichico in genere, che si suol distinguere in sensazione, sentimento e appetizione. Il Croce combatte queste categorie come insussistenti (con una critica, che ha bisogno, in verità, di essere riveduta), distinguendone nettamente la rappresentazione, che identifica con l’espressione, e che non è più un fatto psicologico o naturale, ma un prodotto dell’attività dello spirito, una elaborazione, che questo fa, mercé la sua spontaneità originaria, dell’impressione ricevuta. Questa attività è attività essenzialmente sintetica, consistendo nella sintesi del vario e molteplice offerto dalle impressioni nell’unità od organismo della espressione. Quindi l’unità è indivisibilità del bello. Ciò infatti che dicesi bello non è altro che il valore dell’espressione. Bellezza è espressione; e il brutto si riduce al difetto dell’espressione inadeguata, prodotta dallo spirito che non è tanto attivo da vincere la passività della impressione. Il bello, adunque, è il valore di una attività dello spirito, e però è un fatto essenzialmente soggettivo; è la forma – nient’altro che la forma – onde il soggetto trasforma le impressioni (contenuto). Quindi è evidente la critica del falso oggettivismo e del relativismo estetico. La giusta soluzione di questa vecchia controversia consiste, “nel riconoscere che il criterio oggettivo del gusto c’è, ma è soggettivismo, che la vera oggettività è la soggettività”. Benissimo: questo è il profondo valore – poco inteso dagli odierni critici – della critica kantiana!». (G. Gentile, Le tesi fondamentali di estetica, in “Rassegna critica della letteratura italiana”, 1901, ora in Frammenti di Estetica, Carabba, Lanciano, 1921, pp. 116-117).
Il collaboratore di Croce, che prenderà strade molto divergenti dal liberalismo del suo amico e maestro, vede bene, con la consueta lucidità filosofica, il grande significato del lavoro sull’estetica, anche se lo osserva ancora nella fase di articolo per la rivista dell’Accademia Pontaniana di Napoli.
Credo che anche oggi la lettura delle pagine crociane siano fondamentali per tutti quelli che intendono alzare lo sguardo direttamente verso l’opera d’arte e scrollarsi di dosso qualsiasi preconcetto di scuola.