
pp. 206 – Einaudi – Torino 1996
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La tabacchiera di Manzoni è l’occasione per riflettere con una certa arguzia su tante vicende del “romanzo”, ma anche della vita, la vita di don Lisander, ormai incapsulata nella retorica e nella critica ripetitiva, e la vita di tutti, non molto diversa, in accadimenti e disgrazie, da quella dei due promessi sposi.
Nigro cerca di sfuggire alla ripetitività della critica e alla supponenza retorica, cerca e vi riesce, lavorando, come si dice, di fino. Dal ritratto di Francesco Hayez, tabacchiera compresa, al malincontro del povero don Abbondio, via via attraverso le corserelle, i saltelloni, le giravolte, i passi circospetti e brevi, o lunghi e infuriati, che percorrono tutto il grande romanzo che fa da sfondo.
“La tabacchiera, suggerisce Nigro, è un luogo mentale, sede della memoria letteraria attiva nella scrittura del romanzo. Un richiamo, anche; per lettori disposti a brividare di agnizioni nel labirinto dialogico dei Promessi sposi”. Si tratta di una navigazione nel mare solitario e sconosciuto della vita, non di un racconto di formazione, né di una parafrasi di conoscenze, di un portato di cultura, un delitto o un castigo. Come scriveva Daniello Bartoli nel Cane di Diogene: “Chi naviga, dal prendere che gli fa bisogno il vento per lo traverso, non può andare altrimenti che obliquo: per modo che la proda riguarda un luogo, ma per lo timone torto in contrario del vento, il viaggio della nave porta ad un altro: ch’è un bello e innocente ingannare che l’arte fa la natura”. La citazione secentesca non è accidentale pensando al secolo dell’Anonimo manzoniano.