
pp. 166 – Rizzoli – Milano 2003
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Non sono molti quelli che si accostano a questo bellissimo racconto senza prima passare dalla Carmen di Georges Bizet, la travolgente opera musicale che era riuscita a incantare, in maniera si potrebbe dire inspiegabile, almeno per quel che è dato capire, Nietzsche.
Non si tratta della solita eroina che affronta con virtù le disavventure del destino, ma si tratta al contrario di una donna capace di prendere in mano la propria vita e di scegliere l’uomo da amare senza lasciarsi influenzare da conformismi o tabù. Una donna libera e rivoluzionaria.
Prosper Mérimée forse non si è reso conto fino in fondo di quello che era riuscito a fare con la sua opera, tenendo conto del fatto che aveva in mente, a quanto dichiara lui stesso, di dipingere soltanto un quadro di vita andalusa.
La storia racconta di un giovane soldato che, per amore della bella gitana Carmen, si fa contrabbandiere e criminale. Ma la donna aspira alla libertà, non può farsi catturare da niente, nemmeno dall’amore, e finisce per respingere il suo amante. Quest’ultimo la pugnala e si denuncia immediatamente.
Carmen potrebbe acconciarsi alle condizioni dell’amore, che in qualsiasi modo le si consideri prevedono una sorta di riduzione di libertà, ma per lei la libertà conta più dell’amore e della stessa vita. “Mi chiedi l’impossibile. Non ti amo più; tu mi ami ancora ed è per questo che vuoi uccidermi. Potrei ancora dirti qualche menzogna; ma non voglio prendermi questa pena. Tutto è finito tra noi. Come mio rom, hai diritto di uccidere la tua romi; ma Carmen sarà per sempre libera”.
Davanti alla morte la donna non si pente e non fugge, anzi la riconosce come il suo destino.
Carmen è donna, zingara, apolide, incostante in amore. Una diversa e una fuorilegge. La società non la perdona, meno che mai l’amore possessivo può perdonarla, Mérimée, dall’alto della sua misoginia, la punisce facendola morire.
Ecco la citazione in anteporta all’opera: “Ogni donna è un malanno: non ha che due buoni momenti: quando l’adduci al talamo, quando l’adduci al tumulo”. (Antologia Palatina Pallada, XI, 281).
In appendice: Mosaico, dello stesso autore.